domenica 29 maggio 2016

CONVERSAZIONI LOMBARDE
Thomas Schmidt intervista Mario Benedetto

 Mario, tu vivi e lavori a Milano, ma le tue non sono origini di questi luoghi?
 Si è così. Come tanti altri sono venuto qua per arricchire il territorio e proseguire il mio approfondimento nell’arte.
 Da dove provieni?
Provengo da Scilla, che non ha bisogno di presentazione. Due parole, però, si possono spendere: Nel suo piccolo, oltre le tante versioni delle storie mitologiche, e di alcuni personaggi illustri scillesi come Raffaele Piria, ha una sua annotazione nella vicenda artistica del secolo appena concluso. Il merito va a Renato Guttuso che insieme ai suoi amici l’ha scelta come meta privilegiata della sua ricerca: correva l’anno 1949, per questa ragione fu chiamata “la Scuola di Scilla”. Proprio recentemente, all’Università di Messina, in occasione del Convegno per celebrare quarant’anni dalla pubblicazione del romanzo di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, ritenuto dal critico George Steiner uno dei capolavori del Novecento, Sergio Palumbo ha ricordato che fra la comitiva artistica insediatesi nei quartieri dei pescatori, oltre a Mazzullo, Migneco, Omiccioli, Mirabella e Marino, vi era anche il giovane poeta originario di Alì.
Rimane traccia di questa esperienza?
A Scilla niente di pubblico, ma per Guttuso è stata una tappa fondamentale e significativa. Lo scillese Rocco Catalano è stato per il resto di tutta la sua vita, la persona di fiducia del maestro.
Torniamo alla Milano del tuo arrivo in Lombardia?
A essere sinceri, Milano è stata per me un ripiego ai programmi di allora. Sia io che mio fratello Agostino avevamo constatato che in un Sud tradito, non ci sarebbe stato spazio di libertà per noi. Lui a Milano è arrivato alcuni anni prima. Lavorava al Piccolo Teatro con la Compagnia di Giorgio Strehler, distinguendosi per talento e qualità umane. Io mi mantenevo a Londra con l’intenzione di spostarmi appena possibile in Canada. Le continue pressioni dei miei genitori, che mal sopportavano già l’uscita di casa di mio fratello maggiore, hanno modificato il mio programma, e sono rientrato in Italia, fermandomi a Milano.
Come ti sei trovato?
Definire lo scenario milanese degli anni ’70, dopo che lo hanno fatto bene in tanti, è superfluo. La politica non aveva saputo trovare risposte adeguate alla rottura generazionale che si era verificata non solo in Italia, col movimento del ’68, e in pochi anni ci siamo trovati affondati negli “anni di piombo”. Stavamo cominciando a mettere giù le nostre idee per costruire qualcosa nel nostro quartiere di Brera, chiamato, anche, degli artisti, per l’alta presenza di questi soggetti, che si è abbattuta la tragedia. Si è interrotto, prima che cominciasse il nostro duetto artistico. Agostino muore a soli ventotto anni a Milano con l’appendicite, dopo un mese di ricovero e tre interventi chirurgici massacranti. La malasanità è sempre in agguato!
Come hai affrontato questo trauma?
Preferisco non andare oltre con quest’argomento, è una ferita che segna e che non si può rimarginare.
Scusami, capisco! Parlami del tuo lavoro. C’è una tua mostra di cui vorresti parlare?
Ogni mostra ha la sua storia, la sua motivazione, il suo significato. Una, in particolare, occupa uno spazio importante nella mia esperienza artistica: Quella effettuata a Zurigo nel 1985 con 100 opere sulla civiltà contadina e marinara in Calabria e una conferenza sullo stesso argomento della mostra. Tanta partecipazione di pubblico e successo, che sarebbe stata facilmente divulgata, se non ci fosse stata, di traverso, una precedente operazione poco chiara collegata alle attività svolte nella sede della mostra (era pronto per la stampa un paginone dell’inserto domenicale del più importante quotidiano della Svizzera e l’attesa autorizzazione non arrivava, si è prolungata oltre la pazienza e il tempo dell’esposizione, facendolo saltare).
Hai fatto altre mostre in Svizzera?
Ho tenuto per diversi anni lo studio oltre il confine italiano. Dopo Zurigo ho esposto in quasi tutte le città più importanti della Svizzera perché ritenevo fosse molto utile per le comunità degli immigrati italiani poter vedere opere riferite alla loro identità, ai loro luoghi pieni di affetti e legami. Sia nella parte di lingua tedesca sia francese, la mostra era percepita dagli immigrati come una boccata di ossigeno in un ambiente piuttosto rigidamente inquadrato.
Immagino non sia stata un’impresa facile?
Adesso, di sicuro, non l’avrei più fatta. Nelle mie orecchie risuona la ripetizione lamentosa dell’amico svizzero tedesco (EINE KATASTROPHE!) che continuava a ripetere, seguendo con me tutte le vicissitudini delle operazioni doganali, al rientro in Italia, con i quadri restanti. Ho preparato, da solo senza ricorrere a un’agenzia, la documentazione, alla quale mancava sempre qualcosa, nonostante io avessi chiesto in anticipo di sapere tutto quello che serviva. Mancava sempre un altro documento d’aggiungere alla pratica. Il fatto che la Svizzera non fa parte dell’Unione Europea costituì un problema in più. Con i quadri pesati ed elencati passai dall’Ufficio Esportazione di Brera per la timbratura, con questi a Ponte Chiasso tutto a terra per il controllo alla Dogana in uscita dall’Italia, poi tutto sul mezzo di trasporto, successivamente, a Chiasso, si mette di nuovo a terra e si ricontrollano nuovamente. I tempi non li ricordo più.
Qualche aneddoto di quell’esperienza?
Quello che ancora oggi mi commuove è il ricordo di un contadino sardo che mi aveva riferito di non aver chiuso occhi per tutta la notte aspettando il giorno successivo per venire con i soldi e comprare un quadretto. Aveva il timore che qualche altro venisse prima di lui a portarglielo via. L’opera raffigurava una bellissima capra con il pelo al vento davanti al mare. Era tutto il suo mondo, il suo passato, ritrovato in una tela.
C’è stata una ricaduta nella tua regione d’origine?
Vuoi dire in Calabria? Meglio cambiare argomento! Pochi anni dopo c’è stata un’apertura da parte della Regione, avevo affidato la richiesta al Sindaco di Scilla e per un anno chiesi notizie, fiducioso, telefonando da Milano, ma non fruttò nulla. Un danno d’immagine che tanti miei colleghi non potranno “vantarsi” di elencare. Spostare tanti quadri, coprire le spese per tutto ciò che serve non è sempre cosa facile! Il ricordo dell’Antologica di Lecce è ancora vivo.
Andiamo all’oggi. Recentemente hai intitolato una tua personale, Un idea di Ritratto. Ce ne vorresti parlare?
‘E stata un’ottima occasione milanese perché lo spazio, a due passi dal Duomo, si adattava bene a una mostra tematica. E quale miglior tema del Ritratto di personaggi famosi, che sono stati molto apprezzati dai visitatori italiani e stranieri.
Potresti descriverci meglio questi ritratti?
I vari personaggi rappresentati sono stati realizzati con minimi interventi pittorici su vari frammenti cartacei assemblati apparentemente in maniera libera ma, a un’attenta analisi, oculatamente collocati per ricavarne originali elaborazioni espressive. Scrittura, forma e colore legati insieme nell’unità dell’immagine. Frammenti che non assumono una scontata e semplice funzione cromatica, ma hanno pretese intellettuali che spingono a sollevare e a intrecciare collegamenti ad altre discipline, così care alla contemporaneità. ‘E un altro modo del mio fare che pratico dagli anni ’90 e che ho chiamato Accept-Painting.
Come vedi la situazione artistica attuale?
Ti dirò è sempre stato difficile parlare d’arte, a maggior ragione oggi, in questo momento storico in cui questo mondo meraviglioso è diventato più complesso e intricato.
In che senso?
Nel senso che, in questi anni recenti, i ruoli importanti che, nel bene e nel male, sostenevano il tradizionale funzionamento del sistema dell’arte, sono diventati sempre meno rispondenti alle necessità e sono subentrate altre figure professionali differenti, con ruoli specifici, emersi dal mondo dell’economia e della finanza. In particolar modo per quanto riguarda il mercato dell’arte.
Vuoi dire che c’è stato un forte intervento della finanza?
D’altronde era inevitabile. Se il mondo dell’arte è il riflesso del mondo reale con i suoi valori corrispondenti a una certa epoca storica, per analogia ai “titoli tossici” di oggi corrispondono “ prodotti tossici”. Quando il nostro Occidente ha assunto, con la così detta ”economia di carta”, il danaro come “unico generatore simbolico di tutti i valori”, e l’arte si stacca dalla dimensione del vissuto e dai problemi delle persone, succede che risponda solamente a una spudorata oligarchia finanziaria, che con mirate strategie della persuasione pubblicitaria, monopolizza, inquina le menti e il mercato globale con i “prodotti tossici” dei pochi soliti nomi.
Questo non ha a che fare con l’arte vera?
Certo che no. D’altra parte il settore dell’arte è l’unico mercato al mondo senza regole, in forte crescita, dopo quello della droga e della prostituzione. L’investimento in arte è il meno tracciabile, il meno tassabile, il più adatto a riciclare danaro, il più azzardato, ma anche quello con qualche minima possibilità di decuplicare l’investimento effettuato. Tutto questo mentre ogni giorno viene confermato quanto la creatività e l’arte siano importanti da tante prestigiose istituzioni sparse nel mondo: L’arte fa bene – guardando un quadro, l’umore migliora – il bello provoca emozioni che possono risultare più efficaci dei farmaci, e via di questo passo. Anche il museo non dovrebbe essere utilizzato semplicemente come memoria del passato e dovrebbe essere, invece, sempre più luogo, dove presentare opere contemporanee che dialogano criticamente con l’arte e la società e sul nostro modo di vedere il mondo con visioni alternative.
E nel nostro paese cosa succede?
Oramai viviamo in un mondo globalizzato. In Italia abbiamo ereditato questa grande ricchezza che è la nostra memoria e identità, testimoniata dal vasto patrimonio artistico esistente ad ogni passo nelle nostre città e sparso in tutto il territorio nazionale. E per prendere coscienza cosa facciamo? Riduciamo o facciamo sparire le ore di Storia dell’Arte dalle scuole e deprimiamo il sistema della tutela. Lo stato è incapace a dare il giusto valore al nostro Patrimonio. Senza considerare decenni e decenni di trasmissioni spazzatura e d’intrattenimento che devitalizzano i cervelli e che hanno fatto perdere il senso della cultura come fondamentale valore identitario civile e politico.
In questo scenario gli artisti come si pongono?
Oggi gli artisti sono sempre più soggetti culturali, intellettuali eruditi indispensabili alla società. ‘E un ruolo difficile d’attivare perché è condizionato dal mercato, nei confronti del quale risultano piuttosto indifesi. Potranno avere un vasto pubblico soltanto se rientrano nelle grazie di chi ha il potere che gli permette di essere inserito nelle manifestazioni che contano. Diversamente, da isolato, per la sopravvivenza, se cerca d’agganciare pubblico, è emarginato. Non è così, sia per chi ha tanti soldi o qualcuno alle spalle che lo sostiene e sia per chi ha una sua autonomia da lavoro e, non essendo condizionato da nessun genere d’impiccio, potrà affrontare liberamente la propria avventura infischiandosi del sistema esistente bello o brutto che sia. L’artista serio non lavora per il successo. Quando la società non lo apprezza, chi ci perde sarà sempre quest’ultima.
Quest’ultima considerazione sembra calzare a pennello con la tua posizione. Ti ringraziamo e, a presto.

La corsa sfrenata al successo non coincide, quasi mai, con la realizzazione di se stessi, cui ognuno dovrebbe aspirare in tutta onestà, escludendo le tentazioni di modelli sociali imposti dall’esterno. In conclusione, anche nell’arte, come per la scienza, mi riferisco alla deriva genetica, esistono esperienze che in determinate condizioni possono costituire una spinta generativa come pure no. ‘E una consapevolezza da non ignorare.