CONVERSAZIONI LOMBARDE
Thomas Schmidt
intervista Mario Benedetto
Mario, tu vivi e lavori a Milano, ma le tue
non sono origini di questi luoghi?
Si è così. Come tanti
altri sono venuto qua per arricchire il territorio e proseguire il mio
approfondimento nell’arte.
Da dove provieni?
Provengo da Scilla, che non ha bisogno di presentazione. Due
parole, però, si possono spendere: Nel suo piccolo, oltre le tante versioni
delle storie mitologiche, e di alcuni personaggi illustri scillesi come
Raffaele Piria, ha una sua annotazione nella vicenda artistica del secolo
appena concluso. Il merito va a Renato Guttuso che insieme ai suoi amici l’ha
scelta come meta privilegiata della sua ricerca: correva l’anno 1949, per
questa ragione fu chiamata “la Scuola di Scilla”. Proprio recentemente,
all’Università di Messina, in occasione del Convegno per celebrare quarant’anni
dalla pubblicazione del romanzo di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, ritenuto dal critico George Steiner uno dei
capolavori del Novecento, Sergio Palumbo ha ricordato che fra la comitiva
artistica insediatesi nei quartieri dei pescatori, oltre a Mazzullo, Migneco, Omiccioli,
Mirabella e Marino, vi era anche il giovane poeta originario di Alì.
Rimane traccia di questa
esperienza?
A Scilla niente di pubblico, ma per Guttuso è stata una tappa
fondamentale e significativa. Lo scillese Rocco Catalano è stato per il resto
di tutta la sua vita, la persona di fiducia del maestro.
Torniamo alla Milano
del tuo arrivo in Lombardia?
A essere sinceri, Milano è stata per me un ripiego ai
programmi di allora. Sia io che mio fratello Agostino avevamo constatato che in
un Sud tradito, non ci sarebbe stato spazio di libertà per noi. Lui a Milano è
arrivato alcuni anni prima. Lavorava al Piccolo Teatro con la Compagnia di
Giorgio Strehler, distinguendosi per talento e qualità umane. Io mi mantenevo a
Londra con l’intenzione di spostarmi appena possibile in Canada. Le continue
pressioni dei miei genitori, che mal sopportavano già l’uscita di casa di mio
fratello maggiore, hanno modificato il mio programma, e sono rientrato in
Italia, fermandomi a Milano.
Come ti sei trovato?
Definire lo scenario milanese degli anni ’70, dopo che lo
hanno fatto bene in tanti, è superfluo. La politica non aveva saputo trovare
risposte adeguate alla rottura generazionale che si era verificata non solo in
Italia, col movimento del ’68, e in pochi anni ci siamo trovati affondati negli
“anni di piombo”. Stavamo cominciando a mettere giù le nostre idee per costruire
qualcosa nel nostro quartiere di Brera, chiamato, anche, degli artisti, per
l’alta presenza di questi soggetti, che si è abbattuta la tragedia. Si è
interrotto, prima che cominciasse il nostro duetto artistico. Agostino muore a
soli ventotto anni a Milano con l’appendicite, dopo un mese di ricovero e tre
interventi chirurgici massacranti. La malasanità è sempre in agguato!
Come hai affrontato
questo trauma?
Preferisco non andare oltre con quest’argomento, è una ferita
che segna e che non si può rimarginare.
Scusami, capisco!
Parlami del tuo lavoro. C’è una tua mostra di cui vorresti parlare?
Ogni mostra ha la sua storia, la sua motivazione, il suo
significato. Una, in particolare, occupa uno spazio importante nella mia
esperienza artistica: Quella effettuata a Zurigo nel 1985 con 100 opere sulla civiltà contadina e marinara in Calabria e una
conferenza sullo stesso argomento della mostra. Tanta partecipazione di
pubblico e successo, che sarebbe stata facilmente divulgata, se non ci fosse
stata, di traverso, una precedente operazione poco chiara collegata alle
attività svolte nella sede della mostra (era pronto per la stampa un paginone
dell’inserto domenicale del più importante quotidiano della Svizzera e l’attesa
autorizzazione non arrivava, si è prolungata oltre la pazienza e il tempo
dell’esposizione, facendolo saltare).
Hai fatto altre mostre
in Svizzera?
Ho tenuto per diversi anni lo studio oltre il confine italiano.
Dopo Zurigo ho esposto in quasi tutte le città più importanti della Svizzera perché
ritenevo fosse molto utile per le comunità degli immigrati italiani poter
vedere opere riferite alla loro identità, ai loro luoghi pieni di affetti e
legami. Sia nella parte di lingua tedesca sia francese, la mostra era percepita
dagli immigrati come una boccata di ossigeno in un ambiente piuttosto
rigidamente inquadrato.
Immagino non sia stata
un’impresa facile?
Adesso, di sicuro, non l’avrei più fatta. Nelle mie orecchie
risuona la ripetizione lamentosa dell’amico svizzero tedesco (EINE KATASTROPHE!)
che continuava a ripetere, seguendo con me tutte le vicissitudini delle
operazioni doganali, al rientro in Italia, con i quadri restanti. Ho preparato,
da solo senza ricorrere a un’agenzia, la documentazione, alla quale mancava sempre
qualcosa, nonostante io avessi chiesto in anticipo di sapere tutto quello che
serviva. Mancava sempre un altro documento d’aggiungere alla pratica. Il fatto
che la Svizzera non fa parte dell’Unione Europea costituì un problema in più.
Con i quadri pesati ed elencati passai dall’Ufficio Esportazione di Brera per
la timbratura, con questi a Ponte Chiasso tutto a terra per il controllo alla Dogana
in uscita dall’Italia, poi tutto sul mezzo di trasporto, successivamente, a
Chiasso, si mette di nuovo a terra e si ricontrollano nuovamente. I tempi non
li ricordo più.
Qualche aneddoto di
quell’esperienza?
Quello che ancora oggi mi commuove è il ricordo di un
contadino sardo che mi aveva riferito di non aver chiuso occhi per tutta la
notte aspettando il giorno successivo per venire con i soldi e comprare un
quadretto. Aveva il timore che qualche altro venisse prima di lui a
portarglielo via. L’opera raffigurava una bellissima capra con il pelo al vento
davanti al mare. Era tutto il suo mondo, il suo passato, ritrovato in una tela.
C’è stata una ricaduta
nella tua regione d’origine?
Vuoi dire in Calabria? Meglio cambiare argomento! Pochi anni
dopo c’è stata un’apertura da parte della Regione, avevo affidato la richiesta
al Sindaco di Scilla e per un anno chiesi notizie, fiducioso, telefonando da
Milano, ma non fruttò nulla. Un danno d’immagine che tanti miei colleghi non
potranno “vantarsi” di elencare. Spostare tanti quadri, coprire le spese per
tutto ciò che serve non è sempre cosa facile! Il ricordo dell’Antologica di
Lecce è ancora vivo.
Andiamo all’oggi.
Recentemente hai intitolato una tua personale, Un idea di Ritratto. Ce ne
vorresti parlare?
‘E stata un’ottima occasione milanese perché lo spazio, a due
passi dal Duomo, si adattava bene a una mostra tematica. E quale miglior tema
del Ritratto di personaggi famosi, che sono stati molto apprezzati dai
visitatori italiani e stranieri.
Potresti descriverci
meglio questi ritratti?
I vari personaggi rappresentati sono stati realizzati con
minimi interventi pittorici su vari frammenti cartacei assemblati
apparentemente in maniera libera ma, a un’attenta analisi, oculatamente collocati
per ricavarne originali elaborazioni espressive. Scrittura, forma e colore
legati insieme nell’unità dell’immagine. Frammenti che non assumono una
scontata e semplice funzione cromatica, ma hanno pretese intellettuali che
spingono a sollevare e a intrecciare collegamenti ad altre discipline, così
care alla contemporaneità. ‘E un altro modo del mio fare che pratico dagli anni
’90 e che ho chiamato Accept-Painting.
Come vedi la situazione
artistica attuale?
Ti dirò è sempre stato difficile parlare d’arte, a maggior
ragione oggi, in questo momento storico in cui questo mondo meraviglioso è
diventato più complesso e intricato.
In che senso?
Nel senso che, in questi anni recenti, i ruoli importanti
che, nel bene e nel male, sostenevano il tradizionale funzionamento del sistema
dell’arte, sono diventati sempre meno rispondenti alle necessità e sono
subentrate altre figure professionali differenti, con ruoli specifici, emersi
dal mondo dell’economia e della finanza. In particolar modo per quanto riguarda
il mercato dell’arte.
Vuoi dire che c’è stato
un forte intervento della finanza?
D’altronde era inevitabile. Se il mondo dell’arte è il
riflesso del mondo reale con i suoi valori corrispondenti a una certa epoca
storica, per analogia ai “titoli tossici” di oggi corrispondono “ prodotti
tossici”. Quando il nostro Occidente ha assunto, con la così detta ”economia di
carta”, il danaro come “unico generatore simbolico di tutti i valori”, e l’arte
si stacca dalla dimensione del vissuto e dai problemi delle persone, succede
che risponda solamente a una spudorata oligarchia finanziaria, che con mirate
strategie della persuasione pubblicitaria, monopolizza, inquina le menti e il
mercato globale con i “prodotti tossici” dei pochi soliti nomi.
Questo non ha a che
fare con l’arte vera?
Certo che no. D’altra parte il settore dell’arte è l’unico
mercato al mondo senza regole, in forte crescita, dopo quello della droga e
della prostituzione. L’investimento in arte è il meno tracciabile, il meno
tassabile, il più adatto a riciclare danaro, il più azzardato, ma anche quello
con qualche minima possibilità di decuplicare l’investimento effettuato. Tutto
questo mentre ogni giorno viene confermato quanto la creatività e l’arte siano
importanti da tante prestigiose istituzioni sparse nel mondo: L’arte fa bene –
guardando un quadro, l’umore migliora – il bello provoca emozioni che possono
risultare più efficaci dei farmaci, e via di questo passo. Anche il museo non
dovrebbe essere utilizzato semplicemente come memoria del passato e dovrebbe
essere, invece, sempre più luogo, dove presentare opere contemporanee che
dialogano criticamente con l’arte e la società e sul nostro modo di vedere il
mondo con visioni alternative.
E nel nostro paese cosa
succede?
Oramai viviamo in un mondo globalizzato. In Italia abbiamo
ereditato questa grande ricchezza che è la nostra memoria e identità,
testimoniata dal vasto patrimonio artistico esistente ad ogni passo nelle
nostre città e sparso in tutto il territorio nazionale. E per prendere
coscienza cosa facciamo? Riduciamo o facciamo sparire le ore di Storia
dell’Arte dalle scuole e deprimiamo il sistema della tutela. Lo stato è
incapace a dare il giusto valore al nostro Patrimonio. Senza considerare
decenni e decenni di trasmissioni spazzatura e d’intrattenimento che
devitalizzano i cervelli e che hanno fatto perdere il senso della cultura come
fondamentale valore identitario civile e politico.
In questo scenario gli
artisti come si pongono?
Oggi gli artisti sono sempre più soggetti culturali,
intellettuali eruditi indispensabili alla società. ‘E un ruolo difficile
d’attivare perché è condizionato dal mercato, nei confronti del quale risultano
piuttosto indifesi. Potranno avere un vasto pubblico soltanto se rientrano
nelle grazie di chi ha il potere che gli permette di essere inserito nelle
manifestazioni che contano. Diversamente, da isolato, per la sopravvivenza, se
cerca d’agganciare pubblico, è emarginato. Non è così, sia per chi ha tanti
soldi o qualcuno alle spalle che lo sostiene e sia per chi ha una sua autonomia
da lavoro e, non essendo condizionato da nessun genere d’impiccio, potrà
affrontare liberamente la propria avventura infischiandosi del sistema
esistente bello o brutto che sia. L’artista serio non lavora per il successo.
Quando la società non lo apprezza, chi ci perde sarà sempre quest’ultima.
Quest’ultima
considerazione sembra calzare a pennello con la tua posizione. Ti ringraziamo
e, a presto.
La corsa sfrenata al successo non coincide, quasi mai, con la
realizzazione di se stessi, cui ognuno dovrebbe aspirare in tutta onestà,
escludendo le tentazioni di modelli sociali imposti dall’esterno. In
conclusione, anche nell’arte, come per la scienza, mi riferisco alla deriva
genetica, esistono esperienze che in determinate condizioni possono costituire
una spinta generativa come pure no. ‘E una consapevolezza da non ignorare.
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