L’ERA IN CUI VIVIAMO - Tra comunicazione tecnologica e
comunicazione poetica
Viviamo nell'era della comunicazione ed è il primo comparto
al mondo per investimenti, profitti e possibilità occupazionali, come recitano
le tante scuole create ad hoc per gestire i nuovi scenari. Soltanto nel nostro
paese ci sono più carte sim che esseri umani, i contratti telefonici mobili
utilizzati sono 82,3 milioni, il 135% della popolazione residente, in dettaglio
sette italiani su dieci hanno uno smartphone e le applicazioni più scaricate
sono quelle che permettono di rimanere collegati al mondo. Oramai è molto
difficile non restare impigliati nella “rete”. A questa particolare
“visibilità” concessa dai social network alla massa di utenti, corrisponde un
enorme accumulo di dati privati rivelati che ci rendono più vulnerabili.
Si è diffusa come una febbre, da chiunque verificabile, e smania di dover
raccontare, rendere pubblico, ogni aspetto privato come se fosse rivelatrice
d’importanti significati e nulla più resta in ombra. Il non essere in rete
equivale al non esistere proprio, è inconcepibile e insopportabile restare
fuori dalla rappresentazione di questa realtà fatta di successioni di flash,
frammenti superficiali che non permettono una visione complessiva delle cose
che viviamo. Tutto dev’essere fast che è anche la caratteristica della nostra epoca.
La velocità io la lascerei ad altro, per le relazioni umane e l’arte serve,
soprattutto, un coinvolgimento fisico con la libera consapevolezza di tutti i
sensi, un ritmo diverso e meno virtuale. L’arte e la poesia sono ben altro
dalla necessaria e semplice comunicazione. Certo non si può negare, quanto le
nuove tecnologie siano utili e quanto contribuiscano a stimolare e
sensibilizzare la gente al mondo dell’arte, anche se nulla potrà mai sostituire
la presenza fisica con la sua aura dell’opera d’arte, unica e irripetibile nel
posto in cui si trova. Prima o poi si arriverà, anche in queste latitudini, al
clicca e compra (click and buy), ma andiamoci piano, che necessità c’è di
affrettarsi, precipitarsi a rotta di collo. Va bene stare al passo con i tempi,
comunicare, pubblicizzare, promuovere, gestire, diffondere e valorizzare, ma
non facciamo assurgere l’opera virtuale a paradigma arrogante di qualificazione
estetica. Restiamo umani! Quando la realtà in uno dei suoi aspetti, un certo
colore, una luce particolare, un viso, una figura, un colpo di vento, un
profumo, colpisce l’attenzione umana, se essa è ancora sveglia, accade che le
parole entrino in tensione e non sono più come prima, quando comunichiamo
normalmente. “‘E il reale che tende a dirsi, attraverso
l’emozione e le parole di qualcuno”. Tutto questo non può avvenire
virtualmente. Bene inteso che nessuna preclusione a ricerca e sperimentazioni
di nuovi moduli espressivi dev’essere fatta, l’innovazione va perseguita per
evitare di restare fermi e “impantanati” nella tradizione. “Il compito
dell’arte è quello di essere sempre diversa dal passato, di aggiornarsi. Esiste
soltanto l’arte aggiornata” (da intervista a Gillo Dorfles su Panorama, ott.
2014).L’arte attinge la sua concretezza dalla vita in generale e dalla vita
della cultura i cui contenuti confluiscono in essa, impregnati e fatti propri
per diventare una nuova energia. L’arte non ha nulla a che fare con i tempi
immediati della comunicazione, della condivisione e dell’essere in rete. Con tutto
il rispetto alla genialità di Mozart e di altri grandi, la creazione artistica
non è un gioco, un passatempo, non corre, al contrario ha bisogno di tempi
lunghi, di riflessioni, di approfondimenti, di solitudine, di attesa e non deve
essere di pochi, ma poter parlare a più persone possibili (il sistema dell’arte
è un’altra storia). Creativo nell’arte è colui che rompe le regole estetiche
precedentemente formulate. Soltanto utilizzando chiavi di lettura della realtà
inedite ed anticipative, è possibile vedere al di là dei consueti modelli di
percezione, partendo dalla curiosità e dall’intuizione e sviluppare idee nuove
e invenzioni utili con un valore riconosciuto. Per tagliar corto, voglio citare
questo intenso giudizio di Robert Hughes, scritto qualche anno prima della sua
scomparsa nel 2012: “Ne abbiamo davvero avuto abbastanza di fast art, ora
abbiamo bisogno di slow art. Abbiamo bisogno di un’arte che
racchiuda in sé il tempo, così come fa un vaso con l’acqua. Un’arte che tragga
origine dai modi di percezione e creazione, che con capacità e ostinazione
faccia riflettere e tocchi gli animi. Un’arte che non sia sensazionale, che non
lasci trapelare subito il suo messaggio, che non sia falsamente iconica, ma che
penetri nel profondo delle nostre nature. In breve, un'arte che sia l’esatto
opposto dei mass media”. (Mario Benedetto – da riContemporaneo n. 9)
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